Vor gut einer Woche stellte die tunesische Menschenrechtsorganisation FTDES ein Video ins Netz, mit dem eine Gruppe von Geflüchteten von der Elfenbeiküste, die sich in einer militärischen Sperrzone an der Grenze von Tunesien zu Libyen befand, um Hilfe sucht – wir haben darüber berichtet. Die Gruppe war Anfang August in Sfax verhaftet und nach Medenine gebracht worden, bevor sie von der Nationalgarde in die Wüstenregion nahe der libyschen Grenze deportiert worden war: 36 Menschen, darunter elf Frauen und vier Kinder ohne Lebensmittel und Wasser. Nur dem Engagement tunesischer und internationaler Aktivist*innen ist es zu verdanken, dass sie gerettet werden konnten. Lettera 43 berichtet in einer ausführlichen Reportage über die Odyssee dieser Menschen.

Der österreichische Standard weist zurecht daraufhin, dass dies „bei weitem nicht der erste Fall ist, bei dem Tunesiens Behörden die Verantwortung für sich in Tunesien aufhaltende Migranten und Flüchtlinge zurückweisen und auf Abschreckung setzen. Bereits im Juni weigerten sich die Behörden, 75 Menschen von einem havarierten Fischerboot an Land gehen zu lassen.“ Beide Vorfälle würden auf sich verändernde migrationspolitische Dynamiken hinweisen. Nachdem bisher vor allem die eigene Jugend von der tunesischen Küste aus in See gestochen ist, zwinge die instabile Lage in Libyen auch Menschen anderer Nationalitäten dazu, es von dort aus zu versuchen.

L’Odissea dei migranti ivoriani abbandonati al confine tra Tunisia e Libia

Una deportazione al confine di un Paese in guerra, un trattamento disumano riservato a uomini, donne e bambini e un tentativo reiterato di negare, davanti all’evidenza, le proprie responsabilità. Questa storia sconcertante arriva dalla Tunisia, un Paese spesso indicato come “sicuro” per l’approdo dei migranti salvati nel Mar Mediterraneo. E che invece non sembra sempre incline al rispetto dei diritti umani degli stranieri, come dimostra l’incubo vissuto da 36 persone originarie della Costa d’Avorio, che sono ora in salvo grazie all’azione di attivisti tunisini e internazionali.

LA DEPORTAZIONE IN UNA ZONA MILITARIZZATA

A ricostruire questa vicenda è Yasmine Accardo, impegnata nell’ambito dei diritti delle persone migranti e coordinatrice della campagna LasciateCIEntrare. «Il 2 agosto 36 cittadini della Costa d’Avorio sono stati prelevati dalla città di Sfax e portati a Medenine, nel Sud della Tunisia». Poi, due giorni dopo, il trasferimento nella località di Ras Agedir, al confine con la Libia, tra il mare e il deserto. Gli ivoriani vengono abbandonati in una zona militarizzata che formalmente è ancora territorio tunisino, ma che si trova già oltre i check-point della frontiera: ci restano quattro giorni. La Garde Nationale tunisina impedisce loro di tornare indietro e avanti non possono certo andare, visto che si trovano alle soglie di un Paese in guerra.

ABBANDONATI SENZA CIBO E ACQUA

Nel gruppo ci sono 11 donne, di cui una incinta, e quattro bambini. Non hanno cibo né acqua e sono totalmente isolati. Iniziano a bere quella del mare, l’unica disponibile, e cercano come possono di ripararsi dal sole. Alcuni di loro svengono, i bambini si sentono male, una donna è vittima di una crisi epilettica e non c’è nessuno che possa assisterla. I 36 ivoriani sono soli e non hanno modo di chiedere aiuto.

L’ALLARME LANCIATO CON UN VIDEO

Uno di loro riesce a girare un video con il suo cellulare per documentare la situazione e inviarlo all’associazione Forum Tunisien pour les Droits Economiques et Sociaux che allerta immediatamente una serie di attivisti internazionali, presenti in Tunisia per seguire il ciclo di incontri Europe Zarzis Afrique. Molte le associazioni italiane: Bergamo Migrante Antirazzista, Borderline Sicilia, LasciateCIEntrare, Carovane Migranti, Dossier Libia, Progetto 20k, Melting Pot Europa. A queste si aggiungono i messicani di Movimiento Migrante Mesoamericano e gli spagnoli di Carovana Abriendo Fronteras, oltre alle realtà locali.

IL PIANO D’AZIONE DELLE ASSOCIAZIONI

Si organizza un piano d’azione, che prevede un sit-in di protesta alla sede dell’Unhcr a Tunisi, una manifestazione al porto di Zarzis e pressioni sulla Mezzaluna Rossa e Amnesty International per garantire l’incolumità delle persone coinvolte. Una delegazione di cinque attivisti si muove fisicamente verso la frontiera, racconta Yasmine Accardo, dopo aver ricevuto dagli ivoriani la posizione: «Abbiamo provato a superare i check-point ma ci hanno fermati. Chiedevamo informazioni, ma gli agenti della Garde Nationale negavano l’esistenza di queste persone».

L’OSTRUZIONISMO DEI MILITARI

La sera del 4 agosto l’allarme degli attivisti viene confermato da un bollettino della sezione tunisina di Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni). Le agenzie di stampa e alcuni media italiani e francesi riportano la notizia e gli attivisti, che si organizzano in turni per mantenere presidiata la frontiera, lo fanno presente ai militari, brandendo le registrazioni dei colloqui telefonici avuti con i migranti. Yasmine infatti mantiene contatti costanti con una delle persone deportate. «Per fortuna uno del gruppo aveva un cellulare di vecchia generazione, la cui carica dura di più rispetto a uno smartphone. Fissavamo un orario per sentirci e poi lui toglieva la batteria per risparmiarla».

Dopo 24 ore senza nemmeno un sorso d’acqua potabile agli ivoriani vengono portati latte e tre pezzi di pane a testa. Un piccolo sollievo, ma la situazione resta tragica. La donna in stato di gravidanza comincia a sanguinare e avrebbe bisogno di un dottore ma, come viene raccontato al telefono ad Accardo, nessuno si palesa. Gli attivisti temono il peggio quando un agente interrompe una delle chiamate, ma poi il telefono viene restituito al suo proprietario.

IL BRACCIO DI FERRO CON IL GOVERNO DI TUNISI

La pressione sul governo tunisino intanto comincia a farsi sentire. Tanto che le autorità provano a smentire il racconto fatto dagli attivisti. Il 5 agosto il portavoce dei tribunali del distretto di Sfax, Mourad Turki, contesta le prove della deportazione, affermando che il video ricevuto dal Forum Tunisien pour les Droits Economiques et Sociaux mostri in realtà un gruppo di migranti fermati mentre tentavano di attraversare illegalmente il confine fra Libia e Tunisia nel distretto di Ben Gardane.

Mentre gli attivisti continuano a incalzare gli agenti alla frontiera e la stampa internazionale a interessarsi della vicenda, il 7 agosto esce allo scoperto anche l’Unhcr: un comunicato denuncia la situazione delle persone che si trovano al confine con la Libia, esprimendo preoccupazione per «le loro condizioni sanitarie e di sussistenza». Secondo Silvia Di Meo dell’associazione Borderline Sicilia, è questa la mossa che innesca la svolta. Le autorità tunisine non ammettono la deportazione, ma nei fatti fanno marcia indietro: nella giornata dell’8 agosto arriva agli attivisti la conferma che tutte le 36 persone coinvolte sono state riportate in Tunisia, divise fra Medenine e Mégrine. Le associazioni tunisine per i diritti umani hanno potuto verificare il loro stato di salute. La pressione delle organizzazioni internazionali, da Oim alle Nazioni Unite ha raggiunto l’obiettivo.

UNA TRAGEDIA EVITATA SOLO PER UNA COINCIDENZA

«Se queste persone non sono morte in quel deserto di confine dove sono state abbandonate è stato grazie al lavoro di squadra fra associazioni tunisine e internazionali, tutto è partito dalla nostra mobilitazione», spiega Silvia Di Meo. Nel dramma, il gruppo di migranti ivoriani ha trovato l’appiglio di una rete di attivisti pronti a battersi per i loro diritti e la presenza di coraggiosi cittadini stranieri che fortuitamente si trovavano in Tunisia e hanno fatto propria questa battaglia. Nella speranza che la vita umana non debba più dipendere da una coincidenza fortunata.

Lettera43 | 16.08.2019

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Tunesien will mit der Migrationskrise nichts zu tun haben

Migranten, die in einem Militärgebiet ausgesetzt werden, und Boote in Not, denen nicht geholfen wird: Tunis drückt sich vor der Verantwortung […]

derStandard | 13.08.2019

 

Tunesien: Odyssee subsaharischer Migrant*innen